Sala 4a. Il mito biografico

Lucrezio e l'Antilucrezio

Schwob
Copertina di Logre, L'anxiété de Lucrèce, con un Lucrezio bifronte

San Girolamo (IV sec.) nel Chronicon racconta che Lucrezio "divenuto pazzo per un filtro d’amore, dopo aver scritto nei momenti di lucidità diversi libri, … si suicidò all’età di quarantaquattro anni".

Questa notizia, con ogni probabilità falsa, ha generato tra ’800 e ’900 il mito di un poeta maledetto, preda della follia e del nichilismo. A questo cliché hanno contribuito studiosi (come il clinico B. J. Logre) inclini a riconoscere una scissione tra la serenità del messaggio epicureo e l’angoscia esistenziale del poeta: si è così parlato di un Lucrezio bifronte, di un Antilucrezio in Lucrezio, preda di quell’ennui che è in realtà tipico della fin de siècle.

La stessa immagine si ritrova nelle biografie romanzate di Alfred Tennyson (Lucretius, 1865), di Marcel Schwob (Lucrèce, in Vies imaginaires, 1896): quest’ultimo – come si può vedere dalla illustrazione di Georges Barbier (1929) – rappresenta il poeta che, innamorato di “una donna africana bella, barbara e perversa”, si avvelena con un filtro amoroso, dopo una notte di tormenti esistenziali.

La follia è invece generata dal pessimismo intellettuale in Antico furore di Alberto Moravia (in “La Gazzetta del Popolo”, 1938; rist. in I sogni del pigro, 1940), che ha per protagonista un Lucrezio vittima del “furore, della morte, della vita”. Anche nel Giudizio universale (1957) di Giovanni Papini, è una lucida follia che porta il poeta al suicidio, di fronte alla impossibilità di conoscere a fondo la realtà e di provare veramente l’amore.

In tempi più recenti non mancano ricostruzioni biografiche più didascaliche e ambiziose, come la tragedia Lucrezio di Enzio Cetrangolo (1982) e il romanzo Nei pleniluni sereni di Luca Canali (1995).